Vladimir Jankélévitch (1903-1985), nato in una famiglia di ebrei russi immigrati in Francia, è stato filosofo, pianista ed esperto di musica. Dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza, si è dedicato alla causa di Israele e alla difesa delle minoranze. Francese di lingua e di cultura, ha insegnato Filosofia morale prima a Lille e poi, dal 1952, alla Sorbona.
Jankélévitch è un pensatore difficile da inquadrare, sia per la ricchezza dei registri tematici, sia per l’originalità di una meditazione che trova pochi riscontri nella filosofia contemporanea. Il problema musicologico costituisce lo sfondo sul quale si possono leggere tutte le sue riflessioni filosofiche. Proprio sul problema ontologico intorno all’essenza della musica, egli si misura costantemente con Bergson, uno degli autori che ha maggiormente influito sulla sua formazione.
Il suo pensiero, che si configura come capovolgimento delle categorie tradizionali e dei valori dominanti, rifiuta l’ordine esistente per un ordine «altro» cui egli ha dato il nome di «ineffabile», a segnalare che si tratta di una sfera fondante che sfugge alla presa dei concetti e che, a ben vedere, solo la musica sembra cogliere.
Parallelamente allo studio della musica Jankélévitch ha indagato la dimensione morale dell’esistenza soffermandosi su temi quali il tempo, l’amore, il perdono, la coscienza morale e soprattutto la morte. Oltre al divenire irreversibile, di derivazione bergsoniana, egli ha teorizzato un’originale filosofia dell’istante, visto come cesura radicale e occasione di creazione conoscitiva, morale e artistica. I suoi scritti, ricchi di mutamenti di prospettive e di punti di vista, riprendono lo stile delle sue lezioni universitarie. Grazie all’uso di frequenti neologismi e figure retoriche si manifesta nella sua pagina la presenza di un’inquietudine del linguaggio. Tale cifra stilistica mobilissima esprime il rifiuto della coesione teorica propria di tutte le filosofie concettualistiche. Egli si è sforzato di riprodurre il carattere multiforme della realtà, quello stesso cambiamento continuo che ha caratterizzato le sue musiche preferite.
Tra le sue opere principali ricordiamo Henri Bergson (1931), La cattiva coscienza (1933), Debussy e il mistero (1949), La musica e l’ineffabile (1961), La morte (1966), Il non-so-che e il quasi-niente (1967), Il perdono (1967), Da qualche parte nell’incompiuto (1978), Pensare la morte (1994) e, presso le Edizioni Solfanelli, Dell’improvvisazione (2014) e L’Ipseità e il «Quasi-Niente» (2017).