Buja, 1940-1945.
È il racconto di Lia, figlia sedicenne di Bartolo e Tina. La collina del Belvedere è il punto privilegiato delle sue riflessioni, nell’intrico di cespugli e nel fitto degli alberi — testimoni dei passaggi notturni — e nelle sue visioni del Nord, dove le montagne sono le fortezze della Resistenza.
Dell’arrivo della guerra non ci si accorge subito. È un lento srotolarsi di cambiamenti in peggio, con la miseria che sale e abbruttisce musi e animi. La campagna inaridita fatica a restituire frutti in cambio di sudore e il paese sembra sprofondare in un silenzio vischioso, cupo, dove poche voci impartiscono ordini in una lingua straniera.
Bartolo non sa cosa pensare, di chi fidarsi. Difendere la famiglia e la terra è il suo primo pensiero, eppure comprende che sotto quel vuoto di parole c’è qualcosa che brulica. Dapprima incerte, le sue domande lo aiutano a raccapezzarsi su quello che gli sta accadendo intorno: è uno scenario inquietante, nel quale Buja è solo uno dei tanti luoghi attraversati da cavalli cosacchi e dai loro carriaggi.
L’odore acre della vinaccia si era appiccicato alle pareti della piccola cantina. Gli piaceva, come gli piaceva molto l’idea che anche quell’inverno ci sarebbe stata brovada. Cominciò a sciacquare i tini per metterci le rape, quando uno scalpiccio di passi risuonò sull’impiantito della bottega. Si asciugò le mani nella stoffa rozza dei calzoni e salì di sopra.
Cosacchi.