Una semiotica altra nel Giappone
di Roland Barthes
A cinquant’anni dalla sua uscita, L’empire des signes di Roland Barthes continua a sorprendere. Testo sul calligrafismo in sé finito con cui la civiltà nipponica graffisce ogni aspetto della propria cultura, dalla cucina alla scrittura, dalle composizioni floreali all’organizzazione dello spazio, in controluce è un libro sui limiti della logica occidentale del segno, dominata dall’ansia del significato e da interpretazioni pronte a sistematizzarlo. Ne emergono un inno alla effervescenza di senso della semiosi orientale e l’auspicio di una rinascita del segno occidentale, invitato a emanciparsi dalla immancabilità di istanze semantiche.
 Ma, dato che in gioco vi è una concezione originariamente differente del modo di mediare le cose con le parole e i segni in generale, come fare perché lo stesso Empire, nel profilare l’alter-natività giapponese, non riproponga di fatto l’ennesimo contenuto da adempiere, veicolato attraverso quel segno saturo, rapace e riduzionista che rimprovera all’Occidente?
 Ecco dunque la vera sfida nella caldeggiata palingenesi barthesiana: strutturarsi in un testo che cerchi il più possibile d’incorporare sulla propria significanza, prima che sul proprio significato, la differenza semiologica cui anela volgendo lo sguardo ad Est.