Lo sport come proiezione di un desiderio mai sopito; lo sport come espressione di quell’io che alcuni studiosi hanno già definito “opaco”; lo sport come utopia ludica da affiancare all’erotismo, in assenza delle fallimentari utopie politiche; lo sport come evasione e svago, da vivere nell’intenso rapporto intergenerazionale padre-figlio; lo sport come scusa, per parlare d’altro.
Sono, quelli appeni citati, soltanto alcuni degli aspetti dell’intenso rapporto tra Luciano Bianciardi e lo sport, un tema che lo scrittore maremmano attraversa certo con la passione del bambino preso per mano e portato allo stadio dal padre portiere, ma anche con l’occhio professionale di chi con la scrittura sportiva lavora, ad esempio nella fervida redazione de «Il Guerin Sportivo» di Gianni Brera, e di quella stessa scrittura si serve, riversandola nell’opus “maggiore” dei romanzi e dei racconti.
Percorrendo i mille rivoli del corpus bianciardiano, dov’è difficile distinguere il finzionale dal non finzionale, il letterario dal giornalistico, tenteremo di dare corpo e vita a quel centromediano che lo scrittore non fu mai, ma che nondimeno vive nelle sue splendide pagine di sport.