Uno dei motivi della indiscussa popolarità di Trilussa – che insieme con Cesare Pascarella e Giggi Zanazzo è uno dei tre poeti più importanti della poesia romanesca dopo Giuseppe Gioacchino Belli – è il suo modo moderno di fare poesia, affrancandola metricamente dal sonetto (di eredità belliana) in forme sempre più varie e semplificandola nel lessico. In essa egli introduce la favola, caratterizzata da libere invenzioni a fondo realistico, senza quindi perdere di vista la polemica, l’impegno sociale, la voglia di rivalsa.
Il vernacolo di Trilussa è in realtà un dialetto romanesco largamente edulcorato e comprensibile ad ogni lettore dello stivale. I tempi cambiano, ma i contenuti sono tali e quali e anche i personaggi sono gli stessi (la popolana, il monsignore, il politico, il nobile, i medici, i giornalisti, i militari di carriera), ovvero macchiette di una città che ha perduto il suo papa-re ma non le pasquinate, né tantomeno la sua connaturata verve critica.
Tutti questi elementi, comprese le metafore sulla libertà negata e sul potere, emergono ancora di più nelle liriche raccolte in Lupi e agnelli, in cui il poeta, sarcastico osservatore dei costumi, giocando sul binomio uomo-animale e animale-uomo, dà voci umane alle bestie caricandole di virtù, vizi e miserie che appartengono alla razza dominante, spesso più disumana che umana, come appare più chiaramente nella seconda parte del volume, Dalla Guerra alla Pace. Inutile dire che ad uscirne peggio è l’uomo.