«Combattere per un’idea, o sia pure per un sogno». Questo, in sintesi, il nucleo del romanzo L’incantesimo (1897) di Enrico Annibale Butti, a suo tempo famoso come Gabriele d’Annunzio, oggi ingiustamente dimenticato.
E L’incantesimo è una sorta di ideale continuazione – calata nella vita quotidiana – del dannunziano Le vergini delle rocce (1896), con il tentativo di ripristinare un regime aristocratico, spazzando via i cascami dell’Italietta liberale fin de siècle.
Seguendo le vicende e i pensieri di Aurelio Imberido, conte decaduto ma molto attivo, monarchico, elitario e fieramente antidemocratico (e ben conscio che «due di quei malviventi, purché sapessero scombiccherare il loro nome, pesavano più di lui sulla bilancia della Democrazia»), Butti riesce a realizzare un romanzo ideologico affascinante, che nel contempo è anche un vero capolavoro di introspezione psicologica, attento com’è a seguire tutti i moti dell’animo del protagonista.