Gabriele d’Annunzio ebbe una personalità complessa e controversa, difficile da comprendere in un giudizio sommario, come quello di Benedetto Croce, che ne compendiava l’esistenza in “vita delle cacce, delle corse, dei salotti, l’amore dello sport e lo sport dell’amore”. Più significativo è il titolo dell’opera francese di Marinetti: Les dieux s’en vont, D’Annunzio reste.
E fu il periodo francese (quello del cosiddetto esilio ad Arcachon) che esaltò molti aspetti, artistici eumani, dello scrittore europeo.
Nel testo si trattano le imprese letterarie e teatrali d’oltralpe (in particolare Le Martyre de Saint Sébastien, quattromila versi in francese arcaico), e quindi la sfida linguistica di “uno scrittore d’ottima tempra paesana che si compiacque d’essere chiamato dai raccoglitori di resina delle Lande solitarie l’Italien” e “mon cher ami” dal grande Claude Debussy.
Ma, per averne un ritratto completo, si analizzano anche gli aspetti più vari e curiosi della sua esistenza “inimitabile”: raffinato amatore, dandy profumato, amante dei cavalli e dei cani (lo “chenil de Pinasse” giunse ad ospitare ben 39 levrieri!), uomo sportivo, abile pubblicitario che gestiva innanzitutto la sua immagine, bricoleur, arredatore, superstizioso, ecc.
Trascorsi cinque anni di esilio (1910-1915), d’Annunzio ritornò in patria “dopo aver piantato suquel suolo di Francia l’alloro italiano”.