C’è una favola arguta che racconta di una guerra che scoppia banalmente a causa di una goccia di miele. La racconto.
Un pastore va in una drogheria per acquistare un po’ di miele. Nel travaso ne cade una goccia e una mosca inizia a svolazzare nel tentativo di papparsela. Il volo della mosca causa un improvviso movimento del gatto del droghiere che, con una lesta zampata, uccide la mosca. L’improvviso movimento del gatto, però, innervosisce il cane del pastore che azzanna il gatto, uccidendolo. Il droghiere allora, vista la scena, uccide il cane con un colpo di scopa. Ma anche il pastore reagisce e con il suo bastone uccide il droghiere. Gli abitanti del borgo, saputo dell’uccisione del droghiere, vanno alla caccia del pastore e uccidono anche lui. Ma subito i compaesani del pastore, saputo a loro volta dell’accaduto, corrono a far vendetta nel borgo del droghiere. E scoppia la guerra; una guerra che dura tanti anni e che farà tanti morti. Tutto a causa di una semplice goccia di miele.
Questo non è solo un apologo contro la guerra, è qualcosa di molto più importante. Si tratta di una storia — certamente paradossale, come tutte le favole — che denuncia l’impossibilità di quell’utopia che pretenderebbe un mondo senza eserciti.
Mi spiego meglio. Nella storia umana c’è un fattore da cui non si può prescindere e che risponde al nome di imponderabilità. Questo fattore c’è poiché l’uomo è libero, non è completamente condizionato dalla società. D’altronde chi può credere che, fatta una società politicamente perfetta, automaticamente l’uomo diventi buono e solo buono? Certo, l’influenza della società sull’uomo è innegabile, ma questa è cosa ben diversa da un determinismo automatico (cioè da un condizionamento assoluto), che invece non c’è.
Il Cristianesimo, nella sua essenza, è lontano da qualsiasi deriva utopica; esso parla infatti del peccato originale, cioè dell’uomo che ha fallito malgrado si trovasse nel Paradiso terrestre, società perfetta per eccellenza.
Dunque, per il Cristianesimo, ogni uomo è sempre chiamato, attimo dopo attimo, a scegliere tra il bene e il male; e questa non è una scelta che si fa una sola volta nella vita: a riguardo non c’è modo di vivere di rendita.
Chiediamoci: quando è nata l’utopia?
Ne parleremo tra pochissimo. Intanto diciamo che è difficile dare una risposta precisa, dato che storicamente questo errore (perché di errore si tratta) esiste da quando esiste l’uomo (1). Ma, da un punto di vista della storia del pensiero, una risposta si può abbozzare. L’idea di utopia trova il suo terreno fertile nell’idea stessa di modernità, cioè in quell’idea che si fonda sulla pretesa di rendere l’uomo fondamento di tutto. Più precisamente, l’utopia si sviluppa quando l’uomo ha iniziato a illudersi di comprendere nel proprio pensiero tutto il reale (“comprendere” nel senso letterale di “prendere dentro”); anzi, di ridurre il reale a una sorta di equazione matematica o di teorema geometrico. Un riferimento può essere fatto al razionalismo filosofico che — si badi — non ha nulla a che fare con l’uso corretto della ragione (2).
Ebbene, è proprio quando nella realtà si elimina l’elemento dell’imponderabilità, cioè dell’imprevedibilità, che la realtà stessa può essere tradotta in numeri e inclusa in teoremi; quando invece si riconosce la libertà individuale, diviene possibile l’ipotesi, ma non la certezza, di quello che potrà accadere. Io posso ipotizzare che Mario Rossi agirà in un determinato modo ma non posso averne la certezza perché Mario Rossi è libero e non sono prevedibili le sue decisioni. Pertanto la realtà stessa, che si forma anche con l’esercizio della libertà dell’uomo, non è più riducibile a teoremi o proporzioni costruiti in anticipo.
L’utopia, che affascina molti (compresi molti cristiani), non solo è strutturalmente l’antitesi del Cristianesimo, ma genera sempre sangue. Le utopie sono come i letti di Procruste del celebre mito: se gli uomini sono più lunghi dei letti, non si sostituiscono i letti ma si tagliano gli uomini (3).
Se la realtà si adatta all’utopia, bene; altrimenti, peggio per la realtà. Lunacarskij (1875-1933), filosofo marxista e politico russo, soleva dire: «Se i fatti non ci daranno ragione, peggio per i fatti!»
Si potrebbe obiettare che anche il Cristianesimo sia un’utopia. Nulla di più sbagliato. Se io chiedo a Mario Rossi di scolpirmi una statua come La Pietà, sarei un sognatore; ma se potessi chiederlo direttamente a Michelangelo, non lo sarei affatto. A Mario Rossi non posso chiederlo, perché nessuno può dare ciò che non ha; ma a Michelangelo sì. Fuor di metafora: all’uomo non posso chiedere di realizzare la società perfetta, perché egli non ha in sé la perfezione; ma a Dio posso chiederlo. Ecco perché il Cristianesimo dice che la società perfetta si avrà solo alla fine dei tempi, cioè con la seconda venuta di Gesù. Questo non solo non è utopia, ma è il suo contrario; perché nasce dalla consapevolezza della precarietà e della fallibilità dell’uomo e delle sue costruzioni.
Di questo, ribadisco, dovrebbero ricordarsi in molti. Anche molti cristiani, che sono pronti a svendere la loro specificità appiattendosi su posizioni utopiche e fallimentari.
Leggiamo questa bella pagina da Il mondo, la carne e Padre Smith di Bruce Marshall (1889-1987): «Angus fu impiccato il giorno di San Cirillo di Gerusalemme del 1927, per cui il Padre Smith dovette indossare i paramenti bianchi quando andò a dir la Messa nella sua cella e a dargli la comunione. La confessione di Angus fu simile a molte altre che il Padre aveva già ascoltato; una lunga sfilza di ribellioni a Dio, un mulinello, un risucchio, un ribollire di peccati sciocchi. Il prete da principio era troppo commosso per poter fare molta attenzione: pensava alla cosa terribile che aspettava il giovane e si diceva che forse aveva anche lui un po’ di colpa, perché quel famoso giorno in trincea aveva detto ad Angus che il mondo, dopo la guerra, sarebbe stato un luogo di bontà, di santità e di giustizia. Ma poi si ricordò che — come aveva osservato il cardinale Newman — anche il più piccolo peccato veniale era un male peggiore agli occhi di Dio di quel che non fosse la distruzione del mondo intero e di tutti i suoi abitanti, e si sforzò di ascoltare attentamente, in modo da poter poi applicare con maggior cognizione di causa il balsamo del sacramento. Infatti, quello che nel mondo contava era l’esser buoni o cattivi, e non i venti alisei, i centri di depressione, le farmacie, il prezzo delle cartelle del prestito nazionale... E la gente, per lo più, lo sapeva, giù in fondo al cuore, ma non si azzardava a dirlo forse per paura che gli altri ridessero. Fuori, intanto, i primi tram scampanellavano, annunziando l’inizio d’un’altra giornata materiale e vuota, e un garzone di lattaio cantava: “Charleston, charleston, m’ha detto che non so ballare il charleston”.» (4)
Ecco, l’alternativa è proprio questa: entrare nel profondo del mistero dell’uomo e della sua vita (“in fondo al cuore dell’uomo”, come dice Marshall) e capire che ciò che conta è come si convive con Dio, oppure credere che tutto possa essere risolto con un semplice sogno, un delirio immaginifico (l’utopia), finendo poi con l’inebetirsi e pensare che, tutto sommato, il più grande problema è... non saper ballare il charleston.
1) «[...], antica come la Torre di Babele, si presenta allo studioso come il sintomo di una malattia inguaribile dell’umanità, malattia infantile, adulta e senile, ossessione per l’utopia, fissazione monomaniaca dalla quale nessuna epoca fu esente.» (R. Cammilleri, I mostri della Ragione, Ares, Milano 1993, p. 16)
2) «Dal XVIII secolo sino ai nostri giorni, il regime più diffuso, sotto il quale è vissuta e vive ancora, se si può dire, l’umanità, è la “dittatura della intelligenza” quale è divenuta dopo che fu monopolizzata dagli intellettuali sviluppati, sottosviluppati o in via di sviluppo. Non v’è epoca nella storia, in cui l’umanità abbia riconosciuto ai “letterati” il terribile ed esorbitante privilegio di guidarla verso un nuovo paradiso terrestre, un domani che canta, un punto Omega, una fraternità planetaria, un comunismo universale, una democrazia mondiale, una fusione ecumenica di tutti i teismi, ateismi, monoteismi e politeismi, insomma, verso l’utopia.» (M. De Corte, L’intelligenza in pericolo di morte, trad. di O. Nemi, Volpe, Roma 1973, pp. 18-19)
3) Procruste legava i viaggiatori che incrociavano la sua strada su un letto di ferro, tagliando loro le gambe se erano troppo lunghe o allungandole se erano troppo corte rispetto alla lunghezza del letto.
4) B. Marshall, Il mondo, la carne e Padre Smith, trad. di M. Santi Farina, Longanesi, Milano 1967, pp. 166-167.